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giovedì 17 dicembre 2020

Giulia – Infermiera dal 2013

 


Giulia è di Bisceglie, ma vive a Bologna da tanti anni, ed è infermiera dal 2013. 

Mi sembra passato un giorno dalla sua laurea: ricordo molto bene la sua tensione, l’attesa, gli amici, e poi i fiori e i brindisi. Da quel giorno felice, invece, sono cambiate tante cose. Il lavoro di Giulia, per esempio, che con il tempo ha diversificato utenti, ha conseguito un master, ha scalato la graduatoria, ha cambiato indirizzo e infine lavoro: dopo due anni con gli anziani di ASP Bologna e altri quattro assistendo in residenza persone con disturbi alimentari è approdata al Rizzoli. Lavoro duro, ma lei è sempre stata una dura. Poi è arrivato il 2020. Da marzo in avanti, Giulia è stata “arruolata” in diversi ospedali bolognesi – il Bellaria, il Maggiore C.A. Pizzardi e il Sant’Orsola. La prima ondata e la seconda hanno coinvolto una percentuale enorme del personale infermieristico nei reparti di intensiva, e Giulia è sempre stata in prima linea. 


MK – Come hai vissuto il tuo primo giorno di pandemia? Che cosa è accaduto nelle corsie del Rizzoli? 


GIULIA – Paura, ansia e agitazione! Essendo molto esposti, io e miei colleghi ci siamo molto preoccupati per la nostra salute: i pazienti arrivavano da tutta Italia, molti per operarsi, la provenienza, e successivamente il colore della zona d’arrivo, non hanno mai avuto importanza. Quando la pandemia è stata conclamata, a inizio turno ci si confrontava fra colleghi per provare a prendere coscienza del reale pericolo; poi, inquadrata la situazione, abbiamo stabilito il comportamento più adeguato da adottare sempre: mascherine, distanziamento e continua attenzione alla disinfezione degli spazi. 



MK
– Qual è stata l’esperienza più intensa che hai vissuto durante la prima ondata? 


GIULIA – Sicuramente in degenza, alla fine dell’incarico. All’inizio di maggio è arrivato in reparto un nonnino ricoverato dal Pronto Soccorso perché era uscito di casa e si era perso. Non sapeva più tornare a casa. Aveva l’Alzheimer o comunque la demenza senile. È stato raccolto per la strada e portato al PS dove è risultato positivo al Covid-19. Successivamente è stato identificato e si è scoperto che sua moglie era morta di Covid due settimane prima, mentre entrambi i suoi figli erano ricoverati nei reparti Covid del Bellaria. Era solo e disorientato…



MK – L ’estate scorsa sei scesa a Bisceglie. Abbiamo evitato i nostri abbracci, ci siamo mantenute a distanza, abbiamo chiacchierato con la mascherina nei luoghi chiusi, ma ci siamo viste, siamo andate al mare, abbiamo mangiato insieme e abbiamo fatto qualche mini gita in Puglia: credi che la seconda ondata sia attribuibile agli spostamenti estivi, e se no, quale pensi sia stata la causa della evidente ricaduta iniziata a ottobre? 


GIULIA – Credo sia stata sottovalutata la gravità della situazione. Ci hanno dato la possibilità di spostarci, di uscire, e di autodeterminarsi. Purtroppo, non tutti hanno seguito le norme anti-contagio e, già a ottobre, abbiamo pagato tutti le conseguenze del poco senso di responsabilità di alcuni.


MK – Cosa significa lavorare in reparti di intensiva Covid-19? 


GIULIA – Significa un grande carico mentale. Occorre rimanere sempre concentrati sul modo giusto di vestirsi e svestirsi per non contagiarsi, anche fra colleghi. Significa un grande impegno professionale per la complessità dell’assistenza al paziente, ma anche collaborazione e confronto continuo con il personale medico. Significa assistere all’ultima telefonata di un padre alla figlia prima di essere intubato. A casa cerco di riposare e di rilassarmi il più possibile perché i turni sono estenuanti, non c’è mai una pausa, i ricoveri ci sono sempre, un posto letto non resta mai vuoto per più di qualche ora.



MK – Com’è cambiata la tua vita a Bologna? 


GIULIA – Pochissima vita sociale e tantissimo lavoro! Non che prima lavorassi poco (ride), ma uscire con le amiche, andare ai concerti e spostarsi per il weekend erano le mie valvole di decompressione.


MK – Come giudichi le tue attuali prestazioni professionali e quelle dei tuoi colleghi? Pensi che il limite di sopportazione e di stanchezza sia già stato raggiunto? 


GIULIA – C’è tanta stanchezza, sia mentale che fisica. Io sono arrivata come unità di aiuto a metà novembre, ma alcuni colleghi che ho conosciuto durante questa esperienza stanno lavorando a pieno ritmo: fanno doppi turni e saltano i riposi, da mesi ormai. Siamo al limite. Nell’ultima settimana sembra che la situazione sia leggermente migliorata: si lavora con più calma ma come ho già detto, i letti non restano vuoti abbastanza a lungo.



MK – Il Natale è alle porte. Qual è la profilassi da seguire per i “fuori sede” che hanno deciso di passare le feste con i propri parenti partendo prima e dopo il periodo di divieto? È possibile ricongiungersi alle proprie famiglie in sicurezza? 


GIULIA – Sarebbe opportuno fare un tampone prima di partire per essere più tranquilli, ma la sicurezza di non rappresentare un veicolo di contagio non c’è. È possibile ricongiungersi ma non riabbracciarsi. Non ancora.



MK – Il 2021 porterà con sé i vaccini: facendo parte del personale di assistenza medica, tu sarai fra i primi a beneficiarne, giusto? Vi hanno già spiegato come si svolgerà il tutto? 


GIULIA – Giusto. Ci è arrivato proprio in questi giorni un modulo da compilare per programmare le agende di prenotazione e trasporto del vaccino contro Sars Covid-2 (nome scientifico di Covid-19). Su base volontaria chi vuole può vaccinarsi secondo una programmazione. 


MK – Che cosa vorresti dire a chi non crede nel virus, a chi ancora pensa che sia “solo” un’influenza, e a chi si ostina a non indossare la mascherina e non rispetta il distanziamento sociale? 


GIULIA – Vorrei far fare loro un giro in terapia intensiva per far vedere loro quanto questo virus sia reale e quanta sofferenza provochi al paziente e alla sua famiglia, quanto sia ingiusto morire da soli, senza avere la possibilità di un ultimo saluto ai propri affetti.


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