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sabato 18 gennaio 2014

Le Fole _ Charles Perrault in Altre Parole

Il Micio con le Calosce

C’era un tempo il proprietario di un mulino che, quando venne meno, lo cedette ai tre eredi, sangue del suo stesso sangue, insieme al somaro e al micio che aveva posseduto in vita. La suddivisione fu veloce e non richiese il consulto di un giurisperito[1] o di un pubblico ufficiale[2] i quali, come è risaputo, si sarebbero ingollati il modesto lascito[3] in un battibaleno. Al primogenito andò il macinatoio, al figlio di mezzo il somarello e al più piccolo solo il micio. Questi non riusciva a capacitarsi del fatto che a lui fossero andate esclusivamente le briciole dell’eredità; “i miei consanguinei[4]” si lamentava, “avranno di che vivere virtuosamente lavorando insieme: io, invece, dopo essermi cibato della bestiola e aver conciato[5] la sua pelliccia, dovrò accettare di crepare di stenti.” Udendone gli sproloqui e dando a credere di non aversene a male, il micio recitò placidamente: “non fatevi prendere dallo sconforto, capo! Reperitemi una bisaccia[6] e due calosce[7] per camminare nella foresta, e capirete che il destino non vi ha affatto riservato un trattamento spregevole.” Nonostante non desse particolarmente credito ai suoi vaneggiamenti, il proprietario era conscio delle capacità del micio nell’acciuffare i ratti, ponendosi a testa in giù o occultandosi nel grano macinato, e volle illudersi che l’animale potesse essergli utile. Ottenuto ciò che aveva richiesto, il micio calzò le calosce, si issò la bisaccia in spalla e fece visita alle lepri di un fattore. Infilò in saccoccia qualche manciata di foraggio[8] e alcune foglie di lattuga; e adagiatosi al suolo come fosse svenuto, attese che qualche leprotto affamato, ignaro dell’esistenza di truffatori come lui,  andasse a cacciarsi nella bisaccia per banchettare delle libagioni[9] che conteneva. Dopo che si fu sistemato, la sorte l’aiutò: un piccolo e sprovveduto leprotto cadde nella trappola del furbastro che strinse la corda per catturarlo e poi gli tirò il collo facendolo secco senza il benché minimo rimorso. Tronfio per il trionfo, la bestiola insistette per essere convocata e ascoltata dal Sovrano in persona. Quando entrò nelle stanze reali, si inchinò al cospetto del Sovrano e recitò: “o mio Re, vi reco una lepre d’allevamento da parte del mio padrone, il Marchese di Carabà” s’inventò “il quale mi ha ordinato di farvene dono”. “Riferisci al nobiluomo che ti manda” fece il Sovrano, “che ne ho apprezzato molto il gesto e che ha i miei ossequi.” Qualche tempo dopo, il micio si acquattò fra il frumento con la bisaccia pronta all’uso e, nel momento in cui due quaglie ci misero dentro le zampe, strinse il legaccio e le catturò entrambe. Subito si precipitò dal Sovrano al quale propinò la medesima tiritera[10] della lepre d’allevamento. Il Sovrano ne lodò lo scrupolo e gli elargì un obolo[11]. Con la stessa metodologia, l’animale rifornì la casa reale di succulenta cacciagione per oltre sessanta giorni, e sempre facendo le veci del nobile millantatore[12]. Un dì, dopo aver scoperto che l’itinerario della camminata del Sovrano l’avrebbe condotto al torrente in compagnia della sua primogenita, che aveva nomea d’essere la creatura più meravigliosa del creato, il micio parlò col suo proprietario: “se ascolterete ciò che vi propongo, troverete l’America[13]! Non dovrete far altro che recarvi al torrente, nel punto che vi segnalerò; da lì in poi, ci penserò io.” Il nobile di Carabà, gli obbedì scrupolosamente, ignorandone sia il piano che lo scopo ultimo. Allorché si trovò nell’acqua del fiume, il Sovrano si apprestò alla riva e, in tutta fretta, il micio prese a strillare a perdifiato: “Soccorso! Soccorso! Il mio padrone non sa nuotare!” Udendone le urla, il Sovrano si affacciò dal portello del cocchio[14] reale e, identificato l’animale che a lungo gli aveva regalato chili e chili di squisita cacciagione, chiese alle sentinelle di occuparsi del distinto Carabà. Durante le operazioni di salvataggio a opera delle guardie reali, il micio narrò al Sovrano che alcuni lestofanti[15] avevano approfittato dello svago del suo proprietario per appropriarsi dei suoi abiti; e che il suo sgolarsi, purtroppo, non era servito a fermarli. In realtà, il gaglioffo[16] aveva occultato gli indumenti del padrone sotto un masso. Il Sovrano impartì direttive, e i suoi servitori si occuparono di reperire un abito per il buon Carabà fra le sue vesti sibaritiche[17]. Il monarca fu premuroso e, dal momento che il vestito concesso esaltava le qualità fisiche del nobile (invero attraente e ben proporzionato), sua figlia lo reputò un buon partito[18]: al Marchese di Carabà furono sufficienti un paio di sguardi languidi, discreti ma cedevoli[19], per far sì che la ragazza cadesse ai suoi piedi. Il Sovrano insistette affinché il Marchese e il suo micio approfittassero del cocchio reale per fare una gita in sua compagnia. Il micio giubilò all’idea che lo stratagemma machiavellico[20] funzionava e precedette la carrozza; incappando in alcuni coltivatori li avvisò: “amici che falciate le messi[21], se non giurate al Sovrano che i terreni che mietete competono[22] al nobile Carabà, diverrete carne da macello[23].” Difatti, il Sovrano s’informò presso di loro rispetto alla proprietà dei campi lavorati. “Sono di pertinenza[24] del Marchese di Carabà” fu l’unisona[25] risposta dei braccianti tremebondi a causa dell’intimidazione avuta. “Pregevole, la vostra tenuta” constatò il Sovrano. “Non posso negarlo, o mio Re” ribatté il Marchese, “inoltre, si tratta di un campo piuttosto produttivo.” Continuando ad anticipare il cocchio reale, la solerte bestiola s’imbatté in altri contadini ai quali ordinò: “amici che falciate le messi, se non spergiurate che le distese che lavorate competono al nobile Carabà, diverrete grasso per le ruote[26] della sua carrozza.” Di nuovo, il Sovrano imperversò con i lavoratori per conoscere il nome del proprietario della distesa di frumento davanti ai suoi occhi. “Appartiene al Marchese di Carabà” mentirono i contadini, e il Sovrano tornò a congratularsi col nobile. Il micio che precorreva il cocchio reale, sbandierò la stessa canzone a chiunque incocciò[27]; e il Sovrano seguitò a strabiliarsi per gli innumerevoli poderi del nobiluomo. Infine, il micio giunse al cospetto di un maniero che apparteneva a uno zotico[28] bestione miliardario: in realtà, ogni campo che il cocchio reale aveva battuto, era spettanza del  bruto tanghero[29]. Il micio dapprima scoprì identità e capacità del bestione, e successivamente si prodigò per incontrarlo e porgergli i suoi umili e deferenti riguardi: sarebbe stato oltremodo scortese fiancheggiarne il maniero e tirar dritto. Lo zotico lo ricevette senza eccessivi ossequi, ma gli fornì un giaciglio sul quale rinfrancarsi. “Mi è stato riferito” insinuò il micio, “che possedete il potere di assumere le sembianze di qualsivoglia bestia, quella del Re della foresta[30] o di un pachiderma[31], per fare degli esempi.” “Ti hanno detto il giusto!” sbottò il bestione, “se non ci credete, state a guardare mentre divento un feroce felino.” Allarmato nel ritrovarsi di fronte al Re della foresta, il micio si inerpicò sulla condotta di scolo[32] dell’acqua piovana, rischiando l’osso della collottola[33] e sfacchinando non poco, dal momento che le sue calosce non erano adatte all’arrampicata. Allorquando il bruto recuperò il suo aspetto originario, il micio saltò giù dal gocciolatoio, e ammise di essersi spaventato a dismisura. “Qualcuno mi ha garantito” proseguì, “che sapete addirittura trasformarvi in bestioline indifese, ma temo di non poter credere che potete diventare, per dire, un ratto o una marmotta; ritengo che queste siano solo dicerie nonché prodigi impossibili.” “Dicerie?” grugnì lo zotico, “impallidisci!” esclamò poi assumendo le parvenze di un topolino che scappò via. Senza ulteriori indugi, il micio saettò sul ratto e ne fece un sol boccone. Frattanto il Sovrano, che si appropinquava al maniero, ne rimirò l’imponenza e decise di farvi visita. Sentendo il suono delle ruote del cocchio sulla passerella[34], il micio raggiunse il Sovrano e recitò: “il maniero del Marchese di Carabà è lieto di ospitarvi, Sire.” “Non mi dite!” strepitò il Sovrano, “persino questa reggia vi appartiene? Non scorgo alcunché di maggior splendore di codesto fortilizio e delle fucine[35] che lo attorniano; mi piacerebbe ispezionarne le stanze, se non vi crea disagio.” Carabà accompagnò la figlia del Sovrano ed entrambi seguirono il monarca che stava varcando l’ingresso di un immenso salone da pranzo nel quale torreggiava[36] un sontuoso banchetto, che lo zotico aveva fatto approntare per alcuni suoi compari i quali avevano rinunciato a fargli visita per via della presenza del Sovrano. Non meno abbagliato della Principessa dalle svariate proprietà del nobiluomo, il Sovrano brindò più e più volte alla sua salute, e infine recitò: “caro Marchese di Carabà! Se la vorrete, vi concederò con estrema gioia la mano di mia figlia.” Il Marchese si inchinò al cospetto del Sovrano e ne accolse la proposta e, l’indomani ne divenne il genero. Il micio fu nominato Duca; e, se pur proseguì a perseguitar ratti, lo fece per puro trastullo[37].




[1]   Giurisperito: avvocato
[2]   Pubblico ufficiale: notaio.
[3]   Lascito: eredità.
[4]   Consanguinei: fratelli, parenti.
[5]   Conciato: trattato per il recupero.
[6]   Bisaccia: sacco.
[7]   Calosce: o galosce, stivali.
[8]   Foraggio: granaglie.
[9]   Libagioni: provviste.
[10] Tiritera: solfa, manfrina, filastrocca.
[11] Obolo: mancia.
[12] Millantatore: chi si vanta per qualcosa che non possiede.
[13] Trovare l'America: diventare ricchi.
[14] Cocchio: carrozza.
[15] Lestofanti: ladri, truffatori.
[16] Gaglioffo: furfante.
[17] Sibaritiche: raffinate, lussuose.
[18] Buon partito: persona degna di sposarsi.
[19] Cedevoli: teneri.
[20]  Machiavellico: astuto, diabolico.
[21] Messi: frutto della mietitura di campi di cereali.
[22] Competono: appartengono.
[23] Carne da macello: corpi da uccidere come animali.
[24] Di pertinenza: di proprietà.
[25] Unisona: corale.
[26] Grasso per le ruote: corpi sacrificati.
[27] Incocciò: incontrò.
[28] Zotico: villano, orco.
[29] Tanghero: maleducato.
[30] Re della foresta: leone.
[31] Pachiderma: elefante.
[32] Condotta di scolo: grondaia.
[33] Collottola: parte posteriore del collo.
[34] Passerella: ponte levatoio.
[35] Fucine: fabbriche, stalle, magazzini.
[36] Torreggiava: si elevava.
[37] Trastullo: gioco, passatempo.

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