Sfere di cellule staminali |
È da poco passata l’ora di pranzo, ma è già uscito.
Preferisce starsene al bar, piuttosto che a casa sua. È seduto fuori. Il freddo
dicembrino gli annacqua gli occhi rosa e gli arrossa le guance rasate. Non beve
nulla. Ha già consumato, eppure se ne resta lì. Mi ricorda mio nonno materno:
un uomo costretto a rallentare il passo dall’angina pectoris ma che, se avesse
potuto farlo, avrebbe lavorato fino all’ultimo dei suoi giorni a velocità
supersonica. Facendosi sentire e pretendendo il massimo, come chi ha fatto poco
altro nella vita e, se non lavora, non sa. È vecchio. Anche più dei suoi anni.
Io non lo conosco, ma la persona che è con me sì. Non sono parenti, però il
vecchio è stato come un nonno, per lui. Tanto tempo fa. “Come stai?”, gli
chiede. “Al solito”, risponde lui: “la solitudine”, aggiunge cristallizzandomi
il sorriso. E poi racconta. Poco. Come se la cosa più importante della sua
vita, in realtà, fosse una sola. E sia andata via. Da cinque anni. Le parole
diventano inutili. Correggo il mio caffè sperando di sciogliere la brina sui
miei denti. Il vecchio fa un cenno impercettibile al ragazzo del bar, un segno
che ha il valore del passaggio di un bancomat in un POS. Offre cordialità e
cordiali. Dieci minuti scarsi, un incrocio, eppure mi resta in testa: spero che,
giocando coi miei pensieri, Emanuele si senta meno solo.
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