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lunedì 17 luglio 2023

"Monteruga" – intervista all'autrice Anna Puricella

Ho finito di leggere “Monteruga” una decina di giorni fa e, complice il caldo – africano, tropicale, folle – il canto infernale delle cicale mi risuona ancora nelle orecchie. Ho fatto qualche domanda all’autrice, Anna Puricella, al suo brillante esordio letterario.

MK –  “Monteruga” è il tuo primo romanzo, anche se la scrittura è il tuo mondo da svariati anni, e la tua esperienza nel giornalismo traspare, dallo stile asciutto alla struttura narrativa a scatole cinesi. Qual è stato il momento in cui hai deciso che volevi scrivere un romanzo e come hai scelto la storia fra le infinite possibili?

AP – Sì, scrivo da molti anni, ma la scrittura giornalistica abitua alla fretta: è tutta un’altra questione. Ci ho messo parecchio a capire che la scrittura di un libro è cosa ben diversa, di conseguenza è stato importante prendermi il giusto tempo. Non ho deciso “quando” iniziare né che stavo “già” scrivendo un libro, non finché la cosa è andata avanti. Avevo una sorta di ossessione per Monteruga e durante il lockdown, isolata in casa come tutti, mi sono ritrovata a passare le serate su Google Earth a guardare il paese dall’alto, dall’alto perché le strade non possono essere percorse perché sono ormai tutte private. Avevo un centinaio di foto storiche di Monteruga – un dono di una decina di anni fa ricevuto dopo il mio primo sopralluogo per Repubblica, il giornale col quale collaboro – che ho cominciato a riguardare in maniera spasmodica. Ho continuato a fissarle finché hanno cominciato a parlarmi, a raccontarmi dettagli. Mi sono lasciata andare alla storia pian piano, è stata lei ad arrivare da me, formandosi pian piano nella mia testa. In un primo momento la trama apparteneva al passato, ma gradualmente sono emersi i personaggi del presente, ossia del 1993, e lasciandoli fare ho visto che interagivano fra loro. Non so dirti perché la storia abbia preso questo taglio, ho solo seguito quello che vedevo nella mia testa, e tutto si è incastrato in maniera perfetta. Considerando che sono una persona che non guarda film horror e non legge noir o thriller, sono tuttora stupita che sia venuto fuori questo libro. Evidentemente era dentro di me.

MK – In “Monteruga” ci sono Angelo e Valerio, e ci sono anche tanti altri personaggi,  ma a parer mio il protagonista del tuo romanzo è lo scirocco, “il vento che fa impazzire”. L’assenza di pasticciotti e pizziche non fa dimenticare che la storia si svolge in Salento. Tutt’altro. I luoghi si vedono, la polvere si calpesta, il verso delle cicale si sente: chi ha dettato? L’amore per la tua terra o l’insofferenza per chi non ha mai capito come amare la Puglia?

AP – Sì, vero: lo scirocco è protagonista. Io sono originaria della zona dove sorge Monteruga (NdR: cittadina ormai fantasma esistita ed esistente), e dalle mie parti ha un nome particolare, “faugno”. È il vento che toglie la ragione, che fa sudare., che si appiccica alla pelle. Nel momento in cui ambientavo una storia ad agosto, era inevitabile che ci fosse quel vento e tutto quello che si porta dietro, cicale comprese. Quello di Monteruga è un Salento che ho fortemente voluto diverso. Sono stanca del Salento da cartolina che ci propinano da anni, pizziche e pasticciotti inclusi: non avrei mai potuto scrivere una storia con quegli stereotipi. Per me il Salento è anche quello arido dell’entroterra, quello polveroso dove si impazzisce se lo Scirocco soffia forte, e dove i legami “animaleschi” fra le persone a volte portano ad accadimenti estremi e crudi. Questo è il mio Salento e non potevo ignorarlo o a immaginare un libro che non ne tenesse conto. Quindi sì, il romanzo è frutto di un amore sconsiderato per la per alcuni pezzi della mia terra d’origine, Monteruga compresa, che per me non è soltanto un luogo, è un’ossessione che va avanti da dieci anni. Insieme allo scirocco, è lei la vera protagonista del libro: è l’espressione plastica del tempo sospeso, un concetto che ho compreso scrivendo, non comune soltanto al Salento ma a un’intera generazione, quella degli anni Novanta che racconto.


MK – Il 1967 e il 1993 sono i due anni-chiave del romanzo. Si tratta di due momenti distanti fra loro caratterizzati da due diversi incidenti; solo i due bandoli di un’unica matassa che districhi con una pazienza antica, preparando chi legge al colpo di scena che quando arriva, tutto ricongiunge: com’è stato avere il destino dei personaggi fra le mani?
 
AP –  Sì, il ‘67 e il ‘93 sono gli anni che definiscono la cornice nella quale si svolge la storia. In una vecchia foto di Monteruga che conservo si vedono tabelle elettorali, che compaiono anche nel romanzo, datate 1967: la storia parte da lì perché significa che in quel periodo Monteruga era viva. Il 1993 è stato un anno che ho definito con un calcolo matematico. Avevo bisogno di un protagonista, Angelo, che fosse un giovane adulto in un’epoca in cui Monteruga era disabitata. (NdA: Per me il ‘93 è magico anche perché è l’anno di uscita di “In Utero” dei Nirvana, ma questa è una fissa mia). Lavorare ai personaggi e avere il loro destino fra le mani è stato complicatissimo. Sono stata loro convivente per qualche anno e ho capito che li dovevo seguire, per cui ho aspettato a lungo prima di delinearli.  Avendo un’impronta giornalistica ho bisogno di visualizzare per poter raccontare. Quando ho cominciato a vedere i personaggi, ho potuto vederne anche le azioni: è stato quello lo switch che mi ha permesso di scriverne. Al loro destino preferisco non pensarci visto che comunque hanno vite molto al limite, estremamente complicate: tutte le scelte che ciascuno di loro prende sono inevitabili, quindi non ho potuto far altro che assecondarle.


MK – Dicci che stai già scrivendo un nuovo romanzo e la chiudiamo qui :)

AP – Vorrei dirti di sì, sarebbe semplice e motivo di grande gioia per me, ma no. Però c’è una storia che bussa da un bel po’ di tempo, con nuove figure che hanno bisogno di essere ascoltate. Spero di potermici dedicare quanto prima al netto di tutto il carico di gioia e meraviglia che mi sta portando la pubblicazione di “Monteruga” che ora non è più soltanto mio.






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