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lunedì 18 gennaio 2021

"Vardø Dopo la tempesta": intervista a Laura Prandino

Laura Prandino ha tradotto per Neri Pozza Editore un romanzo potente e doloroso, Vardø Dopo la tempesta, della scrittrice inglese Kiran Millwood Hargrave. Secondo il Publisher Weekly, il romanzo della Millwood – che trae ispirazione dai processi alle streghe nel Finnmark del 1620 – «getta luce su uno spaventoso spaccato di storia, raccontando la brutale sottomissione delle donne, la superstizione che aleggia nei luoghi isolati e le atrocità compiute in nome della religione». Sono rimasta estremamente affascinata dall’eleganza del testo: nonostante un intreccio ricco di situazioni a tratti scabrose, spesso estreme e sempre aliene alla nostra cultura e al nostro retaggio, la prosa non trascende mai, piuttosto irretisce e “strega” il lettore senza concedergli pause, se non per un sospiro, difficilmente di sollievo. Ho contattato Laura non appena ho terminato la lettura di Vardø Dopo la tempesta per farle i miei complimenti: credo che, in generale, il lavoro di traduzione sia immensamente complesso, non solo perché richiede la padronanza completa di un’altra lingua, ma perché, quando è così ben gestito, contribuisce alla riuscita di un testo e alla sua comprensione più sottile, sfiorando il ruolo dell’autore senza prevaricarlo mai.



MK: Che rapporto hai con la Millwood? Vi siete confrontate durante la traduzione del suo romanzo oppure ti sei interfacciata solo con la redazione della casa editrice italiana?

LAURA: Non conosco di persona la Millwood e non mi sono mai messa in contatto con lei durante il lavoro, anche se mi ero procurata i suoi contatti casomai ne avessi avuto bisogno. Se possibile, e a parte qualche raro caso, preferisco non avere scambi diretti con gli autori, tranne quando trovo magari un’incongruenza da correggere, un errore fattuale, o comunque qualche motivo molto specifico per cui è necessario un confronto diretto prima di decidere come intervenire. In questo caso non ce n’è stato bisogno. Sono dell’opinione (personalissima, altri traduttori preferiscono comunicare anche con gli autori) che il mio lavoro sia legato esclusivamente a ciò che l’opera dice o non dice, al testo in sé più che al suo autore, e che il mio rapporto con il romanzo dovrebbe essere quanto più vicino possibile a quello che ha un lettore. Contattare l’autore lo trovo sempre vagamente imbarazzante, mi sembra un po’ come dirgli: «Guarda, qui non ti sei spiegato bene, non si capisce cosa vuoi dire, chiarisci meglio». È lo stesso motivo che mi porta ad affrontare la traduzione senza aver prima letto per intero il libro, perché vorrei che il mio atteggiamento nei confronti del testo fosse quello di un lettore (un lettore molto pignolo) che lo affronta per la prima volta, senza sapere cosa viene dopo. Certo, nelle fasi successive dovrò tornare indietro se e dove necessario, rileggere e rimodulare certi passaggi in base a quello che scopro procedendo nel lavoro (ci sono magari espressioni che vanno tradotte in un certo modo perché in un passo successivo vengono riprese con uno scopo particolare, personaggi e situazioni che vanno descritti con certi termini e non altri in funzione degli sviluppi del racconto), ma spero di conservare così la freschezza dello sguardo di chi “scopre” la storia mentre la legge.

MK: Pensi che l’affinità fra chi scrive e chi traduce cresca con il tempo oppure l’empatia è una sorta di colpo di fulmine? Ti è mai capitato di lavorare su testi lontani dai tuoi gusti letterari? Quant’è rilevante per te essere in sintonia con la poetica di un autore o di un’autrice?

LAURA: Direi che all’inizio della carriera l’empatia con l’autore è molto importante, si cerca se possibile di tradurre quello che si vorrebbe leggere. Quindi si evita di tradurre, per esempio, la fantascienza se non si legge fantascienza, o il romanzo storico se è un genere che non si ama: si cerca cioè un tipo di scrittura che ci somigli in qualche modo. Ma con l’andare del tempo e con l’affinarsi degli strumenti di lavoro si comincia ad apprezzare anche la sfida, la possibilità di mettersi alla prova su testi diversi da quelli che avremmo scelto come lettori. E allora il discrimine diventa piuttosto la “buona” scrittura. Per quanto possa essere impegnativo o lontano dai nostri interessi o addirittura dalle nostre convinzioni etiche e/o politiche, diventa più soddisfacente tradurre un libro scritto “bene” (inteso come livello stilistico, tenuta e costruzione della storia, musicalità del testo, capacità di attirarci nel proprio mondo), nonostante la storia in sé o le sue implicazioni non abbiano alcuna affinità con noi. Anche per questo non mi sono mai soffermata su qualche genere particolare; quello che mi soddisfa come traduttore è un libro che abbia la forza necessaria per essere lui a guidare la traduzione, che abbia una “sua” voce che sta a me scoprire e rendere al meglio possibile in italiano.

MK: In Vardø Dopo la tempesta non ci sono ripetizioni, c’è un sapiente uso del linguaggio, della sintassi e dei sinonimi, e nonostante i tanti termini volutamente non tradotti dal norvegese, il testo risulta sempre ben comprensibile pur con pochissime note a piè di pagina: quanto margine ha, rispetto al testo originale, chi traduce un romanzo?

LAURA: Vardø ha una sua voce ben distinta, una sua costruzione salda e una sua armonia interna, che hanno reso molto più semplice il mio lavoro. Certe traduzioni cedono a volte alla tentazione di voler spiegare più del dovuto, di aggiungere un livello quasi didascalico a favore di un lettore italiano ritenuto forse pigro, se non peggio. Per quanto mi riguarda – e per fortuna questo vale anche per le redazioni e i revisori con cui lavoro di solito – ho una profonda stima di chi legge, e sono convinta che se l’autore non ha ritenuto di dover tradurre o spiegare ulteriormente termini o concetti che anche per i “suoi” lettori sono ostici, o in un’altra lingua, non vedo perché io dovrei avere minore considerazione per i lettori italiani. È uno degli aspetti dei libri scritti “bene” di cui parlavo prima: non c’è bisogno di aggiungere o spiegare, il testo si spiega e si regge da sé. Altro elemento molto importante e spesso trascurato del lavoro di traduzione è il prezioso contributo di un revisore attento e capace, che rileggendo la traduzione con sguardo “fresco” è in grado di scovare eventuali magagne, ripetizioni, inciampi sintattici che inevitabilmente sfuggono lavorando a lungo su un testo. Quando poi, come in questo caso, a occuparsi della revisione è una bravissima professionista con cui ho già collaborato altre volte, ci sono anche fruttuosi momenti di confronto in cui si studia insieme come risolvere un giro di frase particolarmente complesso da rendere in italiano, o quale soluzione è più adatto a conservare un’ambiguità presente nell’originale. Lavorare con un buon revisore e con una buona redazione alle spalle è sempre un valore aggiunto di grande importanza.

MK: Quanto tempo ci hai impiagato a tradurre Vardø Dopo la tempesta? Quante le revisioni e le riletture? Lavori da sola o ti avvali di qualche collaboratore?

LAURA: Diciamo quattro mesi circa per la traduzione, e poi un’altra quindicina di giorni di lavoro con la revisora. D’abitudine preferisco lavorare da sola, sia per la traduzione sia per le ricerche (terminologiche, storiche, geografiche, ecc.) che accompagnano ogni traduzione. Qualche volta ho lavorato anche a quattro mani con una collega, ma in generale preferisco tradurre da sola. Mentre invece è altamente apprezzato il successivo contributo del buon revisore di cui si parlava prima, la cui dote migliore è la capacità di intervenire se e dove necessario, ma senza stravolgere l’impianto del lavoro di traduzione e meno che mai la “voce dell’originale: praticamente un doppio salto mortale. I passaggi di lavorazione sono più o meno questi: traduzione dell’intero romanzo in una prima stesura durante la quale cerco di risolvere fin da subito eventuali dubbi o ricerche storiche, terminologiche, ecc. O almeno questo è il mio modo di lavorare: so che altri colleghi preferiscono invece fare una prima versione di getto più “grezza”, lasciando in sospeso i vari dubbi per tornarci sopra in seguito; ognuno ha il proprio sistema di lavoro preferito. Poi rilettura con testo originale a fronte, per correggere eventuali errori, passaggi “saltati” (è facile perdersi per strada qualche frase o qualche dialogo), ripetizioni o errori marchiani di interpretazione che possono sempre sfuggire per disattenzione o stanchezza (ricordo di aver passato una buona mezz’ora a chiedermi cosa c’entrava a un certo punto una vedova – widow – che pareva uscita dal nulla, solo per rendermi conto dopo aver riletto non so quante volte la stessa frase che era invece una banalissima finestra – window – , tanto per fare un esempio cretino), limatura di frasi un po’ zoppicanti o troppo contorte. Quindi una nuova rilettura del solo italiano, per verificare che il tutto “scorra” bene (o risulti invece disturbante se così è in originale: c’è sempre il rischio di normalizzare quello che per scelta dell’autore non vuole e non deve essere normale), che non ci siano calchi sintattici, costruzioni troppo legate alla struttura dell’inglese ma poco naturali in italiano (esempio banale, tanto per rendere l’idea: dove in inglese si dice “il mio nome è X”, un italiano direbbe normalmente “mi chiamo X”) e soprattutto che descrizioni, dialoghi, personaggi riescano a evocare in italiano le stesse atmosfere dell’originale. A questo punto il tutto passa al revisore, che a sua volta legge e verifica la corrispondenza con l’originale, segnala eventuali errori e incongruenze sui quali ci si confronta e si decide la soluzione più opportuna, caso per caso, quindi vengono inserite le correzioni e modifiche concordate, e c’è una nuova rilettura sul testo impaginato, per “scovare” eventuali refusi o ulteriori magagne (correggere una parola significa spesso dover ricostruire una frase perché se ne modifica l’equilibrio, o rintracciare le altre occorrenze di quel termine/frase nel resto del libro e correggere di conseguenza, oppure si decide che va cambiato un tempo verbale e allora vanno verificate tutte le concordanze: un lavoro abbastanza certosino di coerenza interna). Poi il tutto viene impaginato e nuovamente riletto.

MK: Rispetto a chi scrive, chi traduce passa perlopiù inosservato, fatta eccezione per gli addetti ai lavori, seppur con preziose eccezioni: personalmente sono convinta che una buona traduzione sia la sola chance di successo per un libro straniero. Ti è mai capitato di leggere un ottimo libro nella sua versione originale e di detestarlo leggendone poi la sua trasposizione in italiano?

LAURA: Mi succede piuttosto il contrario, che è anche la maledizione del traduttore: difficile godersi la lettura di un libro tradotto senza “cercare” in trasparenza l’originale che c’è dietro. Mi è perciò capitato di iniziare a leggere (difficilmente riesco a finirli) alcuni libri che trovavo sintatticamente faticosi, oppure con un italiano piatto e noioso, magari di autori celebrati all’estero, per poi scoprire che la lingua originale era tutt’altro che banale. Oppure, di fronte a frasi che in italiano mi risultano faticose da leggere, mi sorprendo a chiedermi se lo fossero anche in originale. Oltre alla dimestichezza con entrambe le lingue di lavoro (e quindi con le espressioni idiomatiche, i riferimenti culturali, l’immaginario di ciascuna cultura) per un traduttore è necessaria una capacità di scrittura che vada oltre la “tecnica” pura e semplice, e che gli permetta non solo di interpretare al meglio la voce dell’autore, ma anche di non sovrapporle la propria. Sono in pratica le stesse qualità richieste a un buon interprete musicale: saper interpretare al meglio della propria personalità lo spartito, sfruttando tutte le capacità dello strumento e le proprie, ma rispettando sempre la composizione originale.

MK: Avere la possibilità di leggere in più lingue lo stesso testo e di amarlo in più versioni è una grande fortuna per i madrelingua e un enorme traguardo per chi ha scelto e imparato ad amare una seconda lingua: tu leggi più originali o traduzioni?

LAURA: Direi un salomonico metà e metà. Leggo ovviamente in traduzione la marea di libri scritti in lingue che non conosco (vale a dire buona parte della letteratura mondiale). Leggo traduzioni di colleghi che stimo perché mi fido del loro lavoro, perché mi incantano certe loro soluzioni, perché mi offrono stimoli e mi aiutano ad affinare i miei strumenti di lavoro. Leggo in originale, più che altro in inglese, per sentire le diverse voci dei vari autori e apprezzare i loro strumenti espressivi, e amo particolarmente quelli che fanno un uso creativo della lingua o per i quali l’inglese non è la lingua madre o l’unica lingua, perché mi sembra che riescano a sfruttarne ancora di più le potenzialità. Conosco abbastanza bene lo spagnolo e molto meno il francese, ma sinceramente nessuna delle due al punto di potermi godere appieno le finezze di stile, quindi preferisco se possibile leggere in (buone) traduzioni, salvo andare poi a spulciare gli originali se e quando qualcosa non mi convince...

MK: Se potessi scegliere un autore o un’autrice – anche pescando fra personalità letterarie del passato – chi ti piacerebbe tradurre o ritradurre? C’è un testo che ami particolarmente?

LAURA: Amo i classici come lettrice ma non li vorrei tradurre o ritradurre. Mi mettono un po’ in soggezione e richiedono una grande lavoro di preparazione contestuale: mi mancherebbe inoltre quell’aspetto di “scoperta” di un testo che per me è importante. Preferisco quindi dedicarmi ad altro. Mi diverte molto tradurre testi ironici o umoristici perché lì, oltre alle normali sfide della traduzione, bisogna riuscire a far scattare l’umorismo anche in italiano, impresa non sempre facile. Mi sono molto divertita a tradurre Gerald Durrell (Il giardino degli dei) e, per farlo, a rileggere con grande attenzione La mia famiglia e altri animali nella vecchia ma sempre piacevole traduzione di Adriana Motti. Ma in generale preferisco affrontare ogni volta qualcosa di nuovo, di diverso e magari di inaspettato. La traduzione mi ha permesso di scoprire autori che forse non avrei mai letto, alcuni li ho “sopportati” e altri li ho amati molto, e queste scoperte sono in fondo uno dei lati migliori del lavoro.

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